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Intervista a Michel Houellebecq dicembre 24, 2010

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Ecco di nuovo a farvi leggere una intervista di Houellebecq, relativa per altro al suo ultimo romanzo, vincitore del goncourt.

Piersandro Pallavicini intervista Michel Houellebecq
Da La Stampa del 18 novembre 2010
Parla il controverso scrittore francese vincitore del Goncourt “Non riusciamo più a riprodurci, di questo passo spariremo tutti”
di PIERSANDRO PALLAVICINI
PARIGI. Pochi scrittori viventi sanno inquadrare il mondo e scriverne con la disarmante efficacia di Michel Houellebecq. L’autore francese ha da sempre proiettato nei suoi romanzi una visione della contemporaneità e del futuro tanto nichilista quanto realistica. Si è dato il compito di raccontarci tutta la verità, anche quella più imbarazzante, offensiva, il che gli ha procurato un’aura sulfurea e un’avversione quasi unanime in Francia, non mitigata dalle centinaia di migliaia di copie vendute.

Auto-esiliatosi prima in Irlanda e ora in Spagna, dopo due candidature al Prix Goncourt naufragate per l’opposizione indignata di gran parte della giuria, quest’anno con La carta e il territorio (tradotto in Italia per Bompiani) ce l’ha fatta. A dispetto del suo nemico di sempre (e giurato Goncourt) Tahar Ben Jelloun, che non a caso mesi fa ha pubblicato una recensione-anticipazione in cui cercava, con accuse forzate e discutibili, di fare a pezzi il suo romanzo. La vittoria è arrivata con un libro meditativo, ripulito, la temperatura erotica abbassata al minimo, dove scene d’invenzione coinvolgono personaggi pubblici della tv e della letteratura francese, e, soprattutto, lo stesso Houellebecq, protagonista dunque di una sorta di autofiction.
Questo premio la riconcilia, almeno in parte, con il suo Paese?
«Sì, per adesso sì. Però possono esserci delle alternanze di nuovo, in qualsiasi direzione».
Tornerà a vivere in Francia, come Houellebecq nel romanzo?
«Sì, probabilmente. Ma non dove sono cresciuto, non credo proprio [ride]. C’è di meglio in Francia. Ci sono varie regioni gradevoli, tutto il Sud-Ovest è molto bello. Anche il Massiccio Centrale, ma più a Sud di dove sono cresciuto. Sono posti simili all’Irlanda, che mi piace molto».
Ha letto la recensione iper-negativa di Ben Jelloun? La criticava per essersi messo in campo come personaggio, accusandola d’immodestia.
«Non ho letto l’articolo. Ma è uno dei principali complimenti che mi abbia fatto. La maggior parte dei critici pensa che questa messa in scena di me stesso nel romanzo sia invece una parte molto riuscita, perché è veramente fiction. Si capisce che non mi sto avvicinando alla realtà della mia vita, ma anzi il contrario, che me ne allontano».
Già, un ritratto ironico, comico. Un uomo solitario, taciturno ai limiti dell’autismo, con una passione sfrenata per i salumi e con problemi dermatologici imbarazzanti.
«Sì, è molto divertente. Soprattutto le fette di mortadella nel letto, la tv accesa sui cartoni animati, le lenzuola bruciacchiate. Mi sono molto divertito a scriverne».
Infatti nel romanzo si sente la felicità, l’allegria dello scrivere.
«Sì. Forse. Però ero triste quando scrivevo altri brani. Soprattutto i passaggi di Jed, il protagonista, con il padre. Mi ha tentato l’idea inquietante che a un certo punto si cominci a somigliare al proprio padre. Quando Jed va a trovare il padre nel suo studio di architettura, non capisce perché non riesca a smettere di lavorare. E anche Jed, quando si avvicinerà alla propria fine, si renderà conto che non è veramente in grado di non fare qualcosa. Ma non è per niente autobiografico. Mio padre è perfettamente in grado di non lavorare [ride]. E anch’io, del resto».
Il motore che sta dietro a questo romanzo sembra essere: il mondo occidentale va a rotoli, e lo sforzo che facciamo per non ammetterlo è terribilmente ridicolo.
«Ma no, non necessariamente. Trovo che sia in atto una rinuncia alla produzione industriale in Occidente. Ma la Francia e l’Italia sono i due Paesi che se la possono cavare, in Europa. Questi due Paesi possono uscirne in una modalità turistica, agricola. È una via per il futuro. Ciò che fa perdere tempo è cercare di salvare tutto il resto dell’economia. Diciamo semplicemente che l’Occidente sta vivendo pienamente il suo suicidio. Le condizioni produttive fanno sì che non riesca più a riprodursi, dal punto di vista demografico per esempio. Saremo persi, a breve termine. Se continueremo di questo passo, se continueremo a vivere in queste condizioni di produzione, spariremo tutti».
Nel romanzo ci sono luoghi, personaggi della tv, del giornalismo francese. Ma non c’è politica. L’unico politico citato è un italiano, Berlusconi. Niente Sarkozy.
«Berlusconi viene citato perché… si veste un po’ come Jeff Koons. E all’inizio del libro c’è una scena in cui Jed, il protagonista, non riesce a dipingere Jeff Koons, non riesce a coglierne la forte sensazione di ambiguità».
Jed diventerà celebre, nel romanzo, grazie ai ritratti dedicati a personaggi, ciascuno specializzato in una professione. Ma il quadro sui pittori Hirst e Koons non verrà mai realizzato.
«Sì, è questo che è difficile da cogliere. L’ambiguità di Koons. Mentre Berlusconi sembra molto stupido, Jed non ha problemi a dipingere Damien Hirst, la sua espressione è semplice da rendere. E penso che non avrebbe avuto problemi con Berlusconi. Ma è vero anche che non fa ritratti di uomini politici. Non facevano parte dell’argomento trattato da Jed. Non ritengo che essere un politico sia una professione. Una professione è qualcosa di utile».
Avrà però un’opinione sull’attuale governo francese. Sarkozy che ha debuttato con una grande popolarità e ora invece è detestato.
«Su quest’ultima parte non so assolutamente nulla. Per quel che riguarda Sarkozy… Mi piace. Mi piace proprio».
Ma si sente parte della cultura francese o si ritiene un oggetto da un altro pianeta?
«Mah, scrivo in francese. Nell’ambito particolare che ho scelto non ho l’impressione che lo Stato possa fare granché. Non può creare buoni scrittori, né impedire ai buoni scrittori di scrivere. Si può chiedere allo Stato di non rompergli le palle, ecco».
Ciò che sembra davvero preoccuparla è il salutismo obbligatorio, i divieti. Teme che la Francia stia perdendo la sua allure godereccia di Paese dove si fuma molto, si beve ottimo vino, si fa molto sesso?
«Sì, tutto questo si sta veramente perdendo. Ed è qualcosa che rimpiango. Tutte e tre le cose».
Ha vinto il Goncourt, eppure ha dichiarato che questo potrebbe essere il suo ultimo romanzo.
«Ma lo dico ogni volta. Questo dimostra che sono soddisfatto di me stesso».

 

 

 

Ora invece una intervista del 2005

 

Intervista a M.Houellebecq
di Fabio Gambero. Tratta da l’Espresso. Settembre 2005.


In passato ha dichiarato che i veri scrittori portano sempre cattive notizie. Qual è la cattiva notizia del nuovo romanzo?
M.H. La morte dell’amore. Una notizia triste quanto la morte di Dio. Naturalmente non sta a me spiegare le ragioni di tale decesso. Io mi limito solo a constatarlo. E poi, forse, non c’è neppure un vero perché. Semplicemente, gli uomini non hanno più voglia di amare. Per i giovani, soprattutto, è un sentimento eccessivamente complicato che implica troppe responsabilità. Meglio il sesso senza altre preoccupazioni affettive. O forse addirittura meglio rimanere soli, rinunciando al desiderio, come accade nel romanzo ai “neoumani”, gli individui nati dalla clonazione -.

Vivono in un mondo senza sentimenti?
M.H. Si sforzano di neutralizzarli, perché la loro ideologia è una sorta di buddismo incrociato con il pensiero di Spinoza. Il desiderio e la passione sembrano loro una minaccia da cui difendersi. Quindi, per proteggersi da tutto ciò che può turbare il loro equilibrio, cercano di prevenire ogni
emozione -.

Il buddismo, oggi tanto di moda, come soluzione alle angosce umane?
M.H. In realtà no. In passato ho molto criticato le religioni, specie il cristianesimo e l’islamismo. Avevo però lasciato uno spiraglio per il buddismo, che mi sembrava un orizzonte possibile. Oggi anch’esso mi pare inoperante. La pace, la quiete e l’assenza di passioni non bastano per essere felici. Gli uomini hanno bisogno di emozioni e desideri. Hanno bisogno d’amore, che però sfugge sempre. Da qui lo stato di frustrazione e di crisi in cui tutti viviamo. La frustrazione del desiderio produce tristezza, ma l’assenza del desiderio è altrettanto triste -.

Ciò che rende gli uomini umani sono le passioni?
M.H. Si, ma naturalmente anche le passioni negative, come l’odio e la violenza. L’amore però è ciò che ci preoccupa più. Forse perché sappiamo che sta estinguendosi -.

E per questo che il romanzo è dominato dalla nostalgia dell’amore?
M.H. Il protagonista si rende conto che l’more è morto, ma vorrebbe che fosse ancora possibile. Gli piacerebbe che la “possibilità di un’isola” esistesse per davvero. Come tutti gli uomini, si contraddice fino alla fine -.

Houellebecq, il grande cattivo della letteratura francese, in versione neoromantica?
M.H. Ho sempre pensato che, prima o poi, anche i critici si sarebbero accorti del mio lato romantico. Se però l’avessi dichiarato esplicitamente, nessuno mi avrebbe creduto. E poi oggi non sta bene svelare il proprio lato sentimentale. In realtà, spesso scrivo, sperando che qualcuno mi contraddica. Denuncio il peggio, sperando che mi venga mostrata una realtà diversa. Per il momento però non ho molte speranze: l’amore è morto. Ma attenzione, non bisogna leggere i miei romanzi in maniera autobiografica. A volte, ciò che scrivo mi appartiene, altre volte rappresenta ciò che avrei voluto essere, altre volte ancora ciò che non vorrei mai diventare. Per le idee, vale lo stesso principio. Non è detto che le idee dei miei personaggi siano le mie. Anzi, un romanzo può essere una sorta d’esorcismo. Mettere per iscritto i propri incubi può avere una funzione terapeutica. Ma la critica non sempre se ne accorge -.

La critica è importante per uno scrittore?
M.H. No. Non lo aiuta né gli nuoce. Al massimo contribuisce a farlo conoscere al pubblico. In passato, anch’io ho scritto alcune recensioni. Poi ho smesso. Oggi preferisco esprimere il mio punto di vista all’interno dei romanzi. Nella “Possibilità di unin’isola” mi sono tolto lo sfizio di stroncare Nabokov e di ricordare l’importanza di Agatha Christie, una scrittrice ingiustamente sottovaluta. Nel romanzo, ricordo anche la mia ammirazione per Baudelaire, Kleist o Balzac. Di quest’ultimo amo l’energia straordinaria, grazie alla quale poteva scrivere di qualsiasi cosa. La sua volontà di rappresentare l’intera realtà è un po’ megalomane ma molto simpatica -.


Si considera uno scrittore balzacchiano?

M.H. Naturalmente, mi sento molto inferiore a Balzac. E’ vero però che anch’io provo a raccontare il mondo contemporaneo con le sue contraddizioni e le sue derive. Il mio protagonista, l’attore comico Daniel 1, è un personaggio che potrebbe essere uscito dalla penna di Balzac. E’ un uomo cinico che diventa ricco e famoso. Critica e si prende gioco di tutto, arricchendosi alle spalle di tutti. La sua è un’evoluzione balpacchiana -.

E’ una critica nei confronti dei tanti comici che imperversano in televisione e nei teatri?
M.H. I comici non servono più a nulla. La loro critica della società non fa male a nessuno. In realtà sono solo dei cinici collaborazionisti del sistema che guadagnano un mucchio di soldi ironizzando sulle contraddizioni della società. Naturalmente non sono i soli. Anche le rockstar incarnano la ribellione al sistema, ma poi sono ricche sfondate. Daniel 1 gioca con la provocazione, ma sa d’essere un uomo mediocre. E’ un personaggio poco simpatico, che indispone il lettore. Per questo mi piace e si adatta benissimo ai miei romanzi -.

Anche lei, nei suoi romanzi, usa spesso la provocazione…
M.H. Come Daniel 1, mette a nudo le tare della società guadagnando del denaro. Solo che il mio personaggio e molto più cinico di me e guadagna motto di più. Inoltre, è un vero professionista, riesce a controllare tutto, mentre a me ogni tanto le cose sfuggono di mano. E così scoppiano le polemiche. Ora però sono stanco degli scandali. Mi piacerebbe che questa volta non ce ne fossero. D’altra parte, non mi sembra che nel nuovo romanzo ci sia alcunché di scandaloso -.

“La possibilità di un’isola” non salva nulla della cultura contemporanea, in compenso elogia la tecnologia. Perché?
M.H. La tecnologia resiste nel tempo, la cultura no. La cultura contemporanea è in uno stato pietoso. Il dibattito filosofico è fatto di parole al vento, concetti vaghi e approssimativi. La scienza invece riesce a essere precisa. Quello scientifico è un universo a parte che possiede criteri di verifica autonomi e resistenti net tempo. Un teorema vero 3 mila anni fa lo è ancora oggi, indipendentemente dalla realtà socio-politica. La scienza evolve autonomamente e può progredire indipendentemente dell’umanità in crisi. Se l’umanità dovesse sparire, la scienza continuerebbe a esistere. La filosofia mi ha sempre affascinato, ma in essa non c’e nulla di certo, tutto è prigioniero del dubbio -.

Perché allora nei suoi romanzi ci sono così tante allusioni filosofiche?
M.H. Ci sono soprattutto delle domande filosofiche. Non le risposte. In realtà, utilizzo il romanzo per esprimere la mia ammirazione per filosofi come Schopenhauer o Pascal. Schopenhauer scrive benissimo. Il suo pensiero è difficile, ma mi ci applico poco a poco. In passato, lo leggevo per cercare la verità, oggi lo leggo soprattutto da esteta, per il piacere della bellezza della sua scrittura. Schopenhauer, inoltre, parla in termini molto elogiativi di Leopardi, un autore che non conosco, ma che vorrei leggere da motto tempo -.

In compenso, critica molto Nietzsche. Perché?
M.H. Perché io sono per l’ultimo uomo. Nietzsche pensa troppo al superuomo, mentre io, evidentemente, mi interesso all’uomo medio, con tutte le sue bassezze e le sue contraddizioni. La nostra società è dominata da troppi epigoni di Nietzsche, da troppi individui mediocri che si sognano come superuomini -.

Molti presunti superuomini finiscono prima o poi per cadere nella polvere…
M.H. Purtroppo, non abbastanza spesso -.

Nel suo romanzo l’umano regredisce allo stato selvaggio. Perché?
M.H. La regressione degli umani a una condizione tribale e selvaggia è una possibilità, anche se, naturalmente, spero che non sia un’involuzione inevitabile. Basta un nulla per spazzare via la cultura e far risorgere la natura animale degli uomini. Un cataclisma, una guerra. E gli uomini tornano a essere degli animali. E’ ciò che accade nel mio romanzo -.

La scienza però sembra esprimere la possibilità di una trasformazione. Qui addirittura si profila il sogno dell’immortalità attraverso la clonazione.
M.H. E’ vero, ma tale ipotesi di solito non piace ai miei contemporanei, i quali non mi sembrano pronti a modificare il destino biologico dell’umanità -.

Lei invece lo è?
M.H. Certo. Sono assolutamente a favore della clonazione umana e dei vantaggi che ne
possono derivare. Purtroppo, molte persone invocano la dignità umana e altre banalità di questo genere -.

E la forza del punto di vista della chiesa?
M.H. E’ vero che l’eredità della tradizione culturale giudeocristiana è ancora molto presente nella nostra cultura. A questa però si è aggiunto un pensiero oscurantista, che paradossalmente ha iniziato a manifestarsi durante l’illuminismo, con Rousseau. Questo pensiero, che oggi è ripreso dagli ecologisti di ogni specie, considera un delitto cercare di modificar ciò che ha fatto la natura. Per costoro, la natura ha sempre ragione, quindi ogni tentativo di modificarla suona come un delitto. Da qui la paura della scienza e l’idea che andare contro natura sia necessariamente una perversione -.

Lei invece come la pensa?
M.H. Respingo ogni idealizzazione della natura, nella quale c’è di tutto, il bene e il male, il bello e il brutto. La natura cambia, si trasforma e non è particolarmente conservatrice. Sono gli uomini a essere conservatori. Quindi non vedo alcun problema a modificare la natura. Se la scienza può fare meglio, perché privarsene? Non bisogna farsi intrappolare da falsi problemi etici. Perché mai un clone non sarebbe etico? Perché dovrebbe avere meno dignità di un uomo? Nella morale comune c’è probabilmente qualcosa che mi sfugge, visto che nella clonazione io non vedo alcun problema morale. Anche se certo, poi, non è detto che la clonazione risolva il problema della felicità umana -.

Nel suo romanzo, infatti, non lo risolve affatto. L’orizzonte alla fine risulta occupato dal fallimento di ogni speranza. Lei è sempre così pessimista?
M.H. In realtà, sono ciclotimico, quindi cambio opinione molto spesso. Dandomi di volta in volta risposte diverse. In questo momento però mi sembra che l’orizzonte sia senza speranze. Naturalmente, non sono il solo a essere pessimista -.

Chi c’è con lei?
M.H. C’è tutto un pessimismo occidentale nato dal darwinismo. L’idea della lotta per la vita infatti ha prodotto una visione cinica e spietata dell’esistenza. Anche il concetto d’entropia ha molto contribuito a forgiare il nostro pessimismo. In natura nulla di ciò che si è sfatto può rifarsi. Tutto si dirige inevitabilmente verso la distruzione e il caos -.

E’ questa l’equazione fondamentale dell’universo?
M.H. Dell’universo, della società e degli uomini. Una società che inizia a decomporsi non riesce più ad arrestare la propria deriva autodistruttiva, decomponendosi necessariamente del tutto. Una coppia che inizia ad andare in crisi non si salva mai, finisce sempre per separarsi. I primi sintomi sono sempre fatali. Paradossalmente, alcuni mi trattano da reazionario, ma si tratta di un errore grossolano. Il reazionario s’illude di poter restaurare ciò che non esiste più. S’illude di poter tornare indietro. Per me è esattamente il contrario. Indietro non si torna mai. E’ vero che non sposo l’ottimismo di una certa sinistra, ma non per questo mi si deve accusare di essere un reazionario -.

Ripensando a Gramsci, in lei il pessimismo della ragione batte di gran lunga l’ottimismo della volontà…
M.H. In effetti. Nella mia visione del mondo non c’è alcun ottimismo. Pascal paragona la condizione umana a quella di un gruppo di prigionieri incatenati in una prigione in attesa di essere ammazzati. Mi sembra che sia una descrizione esatta e precisa della nostra condizione. Nulla ci permette di essere ottimisti. I lettori dovrebbero capirlo. Come pure dovrebbero rendersi conto che il compito della letteratura non è certo di metterci di buon umore -.


 

 

 

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