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Materiali di studio e approfondimento

Intervista sul materialismo marzo 31, 2012

Filed under: Uncategorized — B. @ 10:46 PM
Pierre-François Moreau e Francesco Toto

 

 

FT:   Quando si fa la storia delle idee i nomi sono importanti. La prima cosa che vorrei chiederti riguarda allora l’emergere della categoria di materialismo. Si tratta del nome di un’accusa o di una rivendicazione ? Chi accusa chi di essere materialista? E qual è il nemico implicitamente designato da coloro che per primi rivendicano per sé questa bandiera? 
PFM:   Sappiamo oramai che le prime occorrenze del termine « materialista» si situano nel XV e XVI secolo, ma in un’accezione molto differente da quella che ci è familiare. Il «materialista» è quello che veniva chiamato anche «farmacista», colui che vendeva della materia medica. Nell’accezione tecnica che dura ancora oggi, il termine appare alla fine del XVII secolo in opposizione all’«idealismo». È evidentemente il nome di un’accusa, i materialisti sono l’oggetto polemico degli idealisti. Solo in seguito diventa una rivendicazione. Quello che è interessante nella storia intellettuale ad esempio francese, è che all’interno della nostra università, quale è stata formata tra gli altri da qualcuno come Victor Cousin e dai suoi successori, si è lungamente cercato di mascherare questa opposizione tra materialismo e idealismo, per sostituirla con una doppia opposizione. L’idealismo veniva allora opposto al realismo, invece che al materialismo, in rapporto alla questione della conoscenza, mentre in rapporto alla questione dell’essere il materialismo veniva opposto non all’idealismo, ma allo spiritualismo. Questa doppia opposizione, con lo sdoppiamento di campi di gioco (essere/conoscere) e l’assegnazione di materialismo ed idealismo a due campi diversi, in cui si giocano partite diverse, è una formazione del tutto artificiale, costruita apposta per nascondere la vera opposizione, che è tra materialismo e idealismo, per impedire ai due termini di incontrarsi e confrontarsi in maniera diretta, su un terreno di scontro condiviso. Ancora ai tempi in cui ero studente io, c’erano professori che ti dicevano: «Fai attenzione, non opporre materialismo e idealismo!». Per parlare di fatti ancora più recenti, una trentina di anni fa è stato fondato da Olivier Bloch, quando era ancora professore a Paris-XII, un seminario sulla storia del materialismo, che è stato molto importante, perché vi si studiavano insieme il materialismo antico e quello del XVII secolo, i libertini e i clandestini, come pure il materialismo biologico del XIX secolo, il materialismo storico e diversi tipi di materialismo contemporaneo,  e che esiste ancora, diretto dopo Bloch prima da André Tosel, ed oggi da Jean Salem. Quando Bloch si è trasferito a Paris-I, alla Sorbona, è stato impossibile, per anni, far riconoscere questo seminario dal Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) o dal ministero, talmente dovette sembrare scandalosa l’idea di fare, in un’istituzione rispettabile come la Sorbona, un seminario sulla storia del materialismo.

FT: Quando si cerca qualcosa, a quanto pare, bisogna prima sapere cosa si cerca. Le cose si fanno però più complicate nelle ricerche storiche, che né possono porre esse stesse il proprio oggetto, idealmente o sperimentalmente, né possono limitarsi ad una semplice raccolta di dati. La posta in gioco della ricerca, in fondo, è sempre anche la costruzione di un  concetto adeguato dell’oggetto, capace di illuminare i dati, di renderli leggibili, organizzabili, di rispettarne le articolazioni interne. Qual è, in questo senso, la condizione delle ricerche sul materialismo moderno? Si dispone di una definizione univoca e condivisa, capace di applicarsi a tutti gli autori ai quali abbiamo l’abitudine di riferirci come « materialisti», e in rapporto alla quale ogni divergenza potrebbe essere ridotta a una semplice variazione sul tema ? O bisogna al contrario rassegnarsi ad una semplice somiglianza di famiglia, il riconoscimento della quale sarebbe più questione di buon senso che applicazione di criteri troppo rigidi per essere utili ?
PFM:   Il carattere che accomuna per esempio i libertini e i clandestini del XVII secolo, come pure i materialisti del XVIII secolo, prima ancora ed in maniera più spettacolare che una vera e propria tesi sulla materia, è rappresentato senza dubbio dal’anticristianesimo. Ancora nel XVIII secolo essere materialisti significa essenzialmente essere anticristiani. Certo, se ci si fossilizza su questa identificazione si rischia di perdere di vista episodi significativi di materialismo cristiano, di dottrine che sono senz’altro marginali nella storia delle idee, ma delle quali anche un pensatore famoso ed influente come Hobbes può essere considerato un esponente. Ad ogni modo, se si guarda all’insieme dei temi che formano l’“enciclopedia” materialista almeno fino alla Rivoluzione, resta comunque riconoscibile una forte impronta anticristiana, antireligiosa, antiteologica. È solo in seguito, nel corso del XIX secolo, che cominciano ad affermarsi delle tesi sulla materia, sostenute più spesso da scienziati che da filosofi, ed è a partire da questo momento e da questo allargamento di orizzonti a facilitare il recupero dei materialisti antichi, come per esempio l’atomismo.
A proposito della tua domanda sulla “somiglianza di famiglia”, ecco, non penso che sia così che bisogna pensare le cose. Beninteso, non è che vi sia qualcosa come un’essenza intangibile del materialismo. D’alta parte, però, c’è pur qualcosa che determina in una maniera non arbitraria l’unità dei materialisti, che consente di pensarli come esponenti di una stessa corrente, e questo qualcosa è appunto la loro costante opposizione con gli idealisti. In ogni momento storico, ad ogni nuova forma assunta dall’idealismo, ad ogni conseguente spostamento del terreno dello scontro, anche il materialismo assume una forma nuova. Quando si parla di “aria di famiglia”, si intende che qualcosa cambia in maniera contingente, ma quelli con cui abbiamo a che fare, qui, sono dei mutamenti storici necessari. Ad ogni spostamento del dibattito sulle scienze, che si concentra in un certo momento su questioni cosmologiche, in un altro attorno all’emergenza della chimica o della biologia, in un altro ancora sulla storia, il materialismo si sposta anch’esso in maniera regolata. Da qui il problema di un materialismo meccanicistico, del materialismo biologico di Diderot, del materialismo storico di Marx, e così via.

FT:   Quando dici che materialismo equivale ad anticristianesimo, da che punto di vista stai parlando? Stai dicendo che quando gli idealisti accusavano qualcuno di essere “materialista”, ciò accadeva in riferimento alle sue posizioni anticristiane? Ma allora perché, per indicare l’anticristianesimo di qualcuno lo si chiamava “materialista”, e non ad esempio “ateo” (che pure era un’accusa abbastanza diffusa!), “empio” e via dicendo? Oppure che quelli che noi oggi cataloghiamo come “materialisti”, tra i quali libertini e clandestini, sono accumunati non da una tesi ontologica, ma da una posizione anticristiana? Ma anche qui, perché allora li chiamiamo materialisti, e non con qualche altro nome?
PFM:   Nel fuoco della polemica queste espressioni sono spesso interscambiabili. La stessa cosa, ad esempio, accade anche con “ateo” e “deista”, sebbene spontaneamente si penserebbe che ateo sia qualcuno che non crede in Dio e deista qualcuno che ci crede. Da una parte, però, accade spesso che i polemisti non badino ai dettagli (non tutti sono teoricamente così raffinati!); d’altra parte, nella storia delle idee si verifica spesso un fenomeno interessante: chi denuncia una posizione come deviata o eterodossa la caratterizza (e dunque, per dirla in breve, la designa) sulla base non dei suoi obiettivi o della coscienza che ne ha il suo portatore, ma della posta in gioco e delle conseguenze che essa implica. Così, di fronte a un eterodosso che afferma che Dio esiste, ma non lo fa nello stesso modo della Chiesa ufficiale del luogo in cui si trova, ad esempio perché ha dei dubbi sul contenuto o lo statuto della Sacra Scrittura, si dirà: la sua attitudine verso la Scrittura avrà per effetto, a lungo termine, di rovinare le ragioni di credere in Dio – e dunque è un ateo.
Ciò detto, esistono dei tentativi di rigore terminologico: penso a quello che sfocia in Kant nella distinzione di tre forme di non-credenza, corrispondenti ai tre oggetti della metaphysica specialis: l’ateismo, che nega l’esistenza di Dio; il materialismo, che nega l’immaterialità dell’anima, e il fatalismo, che nega la libertà umana nel mondo. La miscredenza combatte dunque la metafisica su tre terreni : teologico, psicologico, cosmologico.

FT:   A quale idealismo ti riferisci? Noi ne  abbiamo di solito un’idea preconcetta. Ci vengono subito in mente i nomi di Berkeley o di Hegel, l’“esse est percipi” o la natura come idea fuori di sé: la negazione di ogni autonomia, sul piano innanzitutto ontologico, della realtà di fronte al pensiero.
PFM:  Ma l’idealismo non consiste per forza nell’affermare che lo spirito (esprit) è dappertutto. Lenin lo dice chiaramente in Materialismo ed empiriocriticismo, in un’osservazione che mi sembra estremamente interessante, e alla quale nessuno sembra fare caso: l’idealismo non consiste nell’affermare direttamente che lo spirito è primo rispetto alla materia, ma, più semplicemente, nel far passare il problema della conoscenza prima del problema dell’essere, nel dire per esempio che la questione principale è quella di sapere se l’intelletto sia più importante della sensibilità, o la sensibilità più importante dell’intelletto. La Critica della ragion pura sta tutta qua. L’idealismo consiste, in fondo, nel pensare il problema della realtà, dell’oggettività, sotto la giurisdizione della relazione tra le facoltà delle conoscenza. Il materialismo consiste allora nel fare esattamente l’opposto. In ogni momento il materialismo si definisce in opposizione alla forma di idealismo dominante in quello stesso momento.

FT:   Quindi, a seconda del campo del discorso sul quale ci si colloca, che sia quello ontologico, gnoseologico, etico, siamo obbligati a ridefinire il materialismo all’interno di questo dominio?
PFM:   Assolutamente sì.

FT:    Tornando per un momento a una questione alla quale hai già accennato, qual è il rapporto tra l’emergenza del materialismo moderno e la riscoperta di quello antico? Quali le affinità e quali le differenze ? 
PFM:  Un punto che mi pare interessante, a questo proposito, è che quelli che chiamiamo i “materialisti antichi”, Democrito ed Epicuro, non difendono le stesse tesi: Democrito è un partigiano della necessità, Epicuro del caso. Quando ci si richiama ad essi, ciò nonostante, lo si fa ad entrambi, perché in effetti necessità e caso, nel materialismo moderno, giocano insieme, sono articolati l’uno sull’altro. Questo recupero del materialismo antico da parte di quello moderno, peraltro, è del tutto tipico del modo in cui le filosofie moderne rileggono quelle antiche. Come abbiamo uno stoicismo moderno, che riscrive, in un’altra direzione, lo stoicismo antico (per esempio rispondendo ai problemi giuridici posti dalla scoperta di popoli sconosciuti agli antichi e di cui bisogna analizzare i diritti: la morale stoica fornisce una teoria dell’umanità in generale, che fonderà il diritto dei popoli moderno), o uno scetticismo moderno, che gioca un ruolo in difesa della religione prima, antireligioso poi, mentre lo scetticismo antico non è certo centrato su questioni religiose, così il materialismo moderno non è in continuità diretta col materialismo antico, ma è a partire dalle proprie posizioni e dai suoi propri problemi che gli è possibile l’incontro ed il recupero del materialismo antico. È per questo, ad esempio, che non c’è bisogno che il materialismo moderno riprenda in particolare l’idea che l’atomo sia indivisibile, come accade in Epicuro. Sono altre le cose che si vanno a prendere nel materialismo antico. Epicuro e Democrito, per il materialismo moderno, sono piuttosto dei simboli ai quali ci si richiama che delle dottrine che da riprendere parola per parola. Basta pensare a Spinoza, che in una delle sue lettere a Hugo Boxel sui fantasmi se la prende violentemente con Platone e Aristotele, e si richiama invece a Democrito ed Epicuro, sebbene non vi sia nessun rapporto di filiazione diretta tra la filosofia di Spinoza e quella di Democrito ed Epicuro. Contro Democrito ed Epicuro, Spinoza rifiutava il vuoto e non credeva che ci fossero atomi, né sembra conoscere od essere interessato ai dettagli delle loro filosofie. In fondo, quello che cerca presso di loro è l’idea che ci sia in primo luogo un determinismo, delle cause, delle necessità, e in secondo luogo che le serie causali non siano orientate teleologicamente l’una all’altra, cosa che gli basta per opporre queste filosofie, in blocco, a quelle di Platone, Aristotele, e dei loro eredi.

FT:    Non può darsi che in Lucrezio, ad esempio, Spinoza trovasse l’idea di un certo primato della connessione? Noi siamo abituati ad identificare l’atomismo con il primato dell’atomo, di un’entità perfettamente consistente in sé stessa al di qua di ogni rapporto con l’esterno. Ma l’atomo, per gli atomisti, è innanzitutto un’ipotesi razionale di cui è possibile servirsi nel tentativo di spiegare la realtà fenomenica effettiva, nella quale si ha sempre a che non con atomi isolati, ma con aggregati, con connessioni, legami che si fanno e si disfano… 
PFM:    Sì, è vero che Spinoza si interessa più agli autori latini che a quelli greci, ma anche qui è interessante notare che quello che soprattutto lo interessa, in Lucrezio, è il rifiuto delle metamorfosi. È questo il determinismo. Riprende quasi alla lettera tutta la critica delle metamorfosi nella mitologia pagana. Quando deve identificare per esempio cosa sono le «forme» delle cose, o le «forme» delle cose viventi, quando oppone per esempio la propria filosofia alla filosofia che crede che gli uomini possano mutarsi in alberi, gli alberi possano parlare etc., il sottotesto, il sostrato del testo di Spinoza è il testo di Lucrezio.

FT:  Qual è il ruolo giocato dal corpo umano nella costruzione di un’antropologia materialista? I filosofi si limitano all’enunciazione di una semplice riduzione della mente al corpo, o di una dipendenza dell’uno dall’altra, lasciando per il resto il discorso sul corpo umano ad altre discipline, come l’anatomia, la fisiologia, la teologia, oppure l’antropologia materialista fa riferimento ad un modello di corpo concreto, privilegiato rispetto ad altri, elaborato dai filosofi stessi o importato da altrove? E se l’esclusione del corpo dall’essenza essenzialmente mentale del soggetto consentiva a Cartesio di escludere sensibilità ed immaginazione dall’essenza della mente stessa, perché si tratta di modalità di pensiero o facoltà che spettano alla mente solo in virtù della sua unione al corpo, qual è il rapporto, nel materialismo, tra rivendicazione del primato del corpo e ruolo della sensibilità? In effetti, esiste certo un materialismo “sensista”, ma ne esiste senza dubbio anche uno “razionalista”… 
PFM:   Riguardo al primo punto, no, nei filosofi materialisti il riferimento al corpo è centrale, semplicemente perché le filosofie idealiste e spiritualiste hanno sempre la tendenza vuoi a dimenticarne l’esistenza, vuoi a negare l’influenza del corpo sulla mente, o a considerarla come negativa, vuoi a produrre delle morali ascetiche. I materialisti non sono quindi i soli a parlare del corpo, ma c’è sempre una rivendicazione dell’importanza del corpo. Si potrebbe addirittura distinguere molteplici approcci materialisti al corpo. Da un lato il materialismo satirico, importante per il suo ruolo demistificatore, che sottolinea a qual punto le decisioni ed i discorsi che si pretendono liberi e diretti verso nobili ideali, sono di fatto determinati dai bisogni e le incapacità del corpo: è un discorso di derisione verso l’illusione idealista. D’altro lato, un materialismo della potenza, che insiste al contrario non sui limiti del corpo, ma sulle sue risorse. Quello che bisogna ricordare, inoltre, è che alla fine del XIX secolo si sviluppano delle scuole che si potrebbero considerare come materialiste, forme di materialismo medico, che insistono molto sul determinismo corporeo, e che sfociano per esempio in una giustificazione scientifica del razzismo, a una giustificazione scientifica del fatto che ci sono dei criminali nati, per l’Italia basta pensare a Lombroso. Questa gente la si può scambiare per materialista, se la si guarda da lontano. La loro insistenza sul corpo e sulle determinazioni materiali, però, consiste nel bloccare il corpo in una dimensione statica, e non dinamica. Ecco, a me sembra che si tratti di un caso paradigmatico di ripresa di temi materialisti da parte di qualcosa che è in effetti un idealismo, una dottrina che si riferisce al corpo e alle determinazioni corporee solo per farne in qualche modo un assoluto, negando al corpo tutto quello che può essere singolarità, trasformazione, dinamismo, possibilità di produrre novità, e riducendolo quindi ad una silhouette, ad  una forma od essenza, a un’idea.

FT:   E come si distingue questa posizione da quella che abbiamo appena attribuito a Lucrezio o Spinoza, a proposito della stabilità delle forme, del determinismo? Non si tratta un po’ della stessa cosa? 
PFM: No, perché se guardi a cosa è il corpo, il corpo, in realtà, non è solo un ammasso di organi, come lo pensa questo materialismo medico, il corpo sono dei gesti, delle attitudini, e cioè tutta una serie di iscrizioni storiche, di incorporazioni. In fondo si potrebbe dire che il corpo è un ricettacolo forgiato, fabbricato, formato per ricevere tutto ciò che gli apporta la storia, attraverso la famiglia, la società civile, l’educazione, che in effetti determinano in esso una trasformazione. Beninteso, queste trasformazioni sono regolate (Lucrezio, se vuoi, è sempre presente), non accadono a caso: per apprendere una lingua, bisogna trovarsi in un ambiente in cui quella lingua è parlata, per apprendere una certo tipo di gestualità corporea bisogna trovarsi in una società nella quale questi gesti contano qualcosa. Se leggi l’articolo di Marcel Mauss sulle tecniche del corpo, vedi fino a che punto il corpo sia una cosa malleabile, persino nei suoi gesti, persino nei suoi aspetti tecnici, in funzione della società in cui ci si trova. Lungi dall’essere un mero dato, capace di determinare chi è un genio e chi è un idiota, chi è criminale o chi virtuoso, o quale razza è superiore ed atta a governare quale altra, il corpo è piuttosto, ad un tempo, un prodotto ed uno strumento per produrre quello che è il patrimonio storico di una società. È per questo che, contro una simile specie di materialismo medico, la sola forma di materialismo che oggi sia concepibile per l’analisi delle formazioni sociali è quella di un materialismo storico. Se ci muoviamo a ritroso, e ci rivolgiamo verso i materialismi del passato, ci rendiamo conto, retrospettivamente, che essi erano tutti essenzialmente, in un certo senso, già dei materialismi storici. Prendi per esempio il quinto libro del De rerum natura, in cui Lucrezio costruisce una storia della natura. Oppure prendi quello che Spinoza dice dell’individuo, o dei popoli: se guardi bene vedi che c’è chiaramente per Spinoza una formazione dell’individuo, simile alla formazione di un popolo. Prima della comparsa del materialismo storico, semplicemente, non ci si rendeva conto di come tutti i materialismi fossero, in un certo senso, dei materialismi storici.
Per quello che riguarda il corpo, poi, a partire dagli anni sessanta si è sviluppato in occidente tutto un nuovo spiritualismo –una nuova psicologia, un nuovo fascino per l’irrazionale, o per le spiritualità orientali–, e ciò che è caratteristico di queste nuove forme di spiritualismo è proprio l’insistenza sul corpo, sulle tecniche del corpo, sull’importanza del corpo, sulla meditazione a partire dal corpo, eccetera eccetera. Perché? In realtà, se guardi bene i testi in cui questa mistica si esprime, il motivo è chiaro: il corpo, beh… è l’anima! Il corpo è l’anima perché non è la mente, non è la ragione. Molto semplicemente, si fa appello alla sensazione del proprio corpo, alla sensibilità corporea, alla vita, e via dicendo, come argomento irrazionalista. Non bisogna quindi credere che tutti questi discorsi che sono nati negli anni sessanta, e ancor più dopo il ’68, addirittura in certi ambienti psichiatrici, come ad esempio il movimento dell’antipsichiatria, siano dei discorsi materialisti. Proprio al contrario, il richiamo ad essere più vicini al proprio corpo, il richiamo a sentire il corpo dell’altro, alla cura da portare al corpo… sono tutti discorsi spiritualisti.

FT:     Parlavi di una presenza costante, a partire da Lucrezio, della questione della storia nel materialismo…
PFM:   Io parlerei piuttosto di una presenza della storia non tematizzata.

FT: … secondo te esiste un modo tendenzialmente condiviso, foss’anche soltanto implicito, e prima naturalmente di Marx, nel quale i materialisti hanno pensato la storia? Voglio dire, si tende spesso ad identificare materialismo e naturalismo, inteso come una visione dell’uomo o della storia nella quale il primato spetta alle costanti, alle invarianze… Quale potrebbe essere un punto di vista materialistico su questa variazione incessante che sarebbe la storia? In che modo il materialismo, nella modernità, avrebbe sviluppato un’antropologia che non si concepisca come scienza di una natura umana supposta eterna ?
PFM:    Tutto quello che dici è giusto, il materialismo mette effettivamente in primo piano costanti e invarianti, ma non c’è nessuna contraddizione tra la tematizzazione delle invarianze e l’affermazione della storicità della natura umana. Semplicemente, per l’idealismo la natura umana è qualcosa di fisso, che assegna delle norme. Si definisce l’uomo, si dice che l’uomo è un animale razionale, un animale che parla, un animale che fa questa o quella cosa, ma questa definizione, qualunque essa sia, in una filosofia idealista implica sempre un certo numero di norme che immediatamente ti dicono che ti è vietato fare questo o quello: è vietato essere omosessuale, è vietato fare la rivoluzione, la proprietà è qualcosa di eterno perché è inscritta nella natura umana, la gerarchia è eterna perché appartiene anche lei alla natura umana, fino ad arrivare ad affermare che ciò che è inscritto nella natura umana è inscritto nella natura tout court. A questo fine preciso si è persino costruita una pseudoscienza apposita, l’etologia. Quando leggi Konrad Lorenz o Robert Ardrey, e ne esci convinto che la divisione del territorio presso gli animali è l’antenato della proprietà, e che la gerarchia spontanea delle scimmie giustifichi l’organizzazione gerarchica delle società umane. Quello che questa scienza pretende di fare è di trovare, dietro la natura umana, una natura tout court, che però in realtà è una semplice proiezione della società umana quale essi la conobbero o desiderarono, e costruita apposta per legittimare quest’ultima. Mi sembra che la posizione materialista, a questo proposito, consista nell’andare nella direzione completamente opposta, nel dire che la natura umana non la si conosce attraverso una definizione. Basta pensare a Spinoza, a qualcuno cioè che parla parecchio di uomo e di natura umana, e che però non prova mai il bisogno di dare una definizione di questa natura umana. Puoi cercare quanto vuoi, nei testi di Spinoza non troverai mai neppure un tentativo di definire cosa l’uomo sia. Al posto di una definizione, troviamo solo una serie di condotte. Quando Spinoza si domanda cosa sia la natura umana, risponde descrivendo il fatto che gli uomini vivono insieme, che hanno delle tecniche economiche, parla ad esempio, nel quinto capitolo del Trattato teologico-politico, del fatto che occorre loro “arare, seminare, mietere, macinare, cuocere, ed effettuare molti altri lavori utili alla conservazione della vita”. Un approccio materialistico alla natura umana, in altre parole, consiste nel descrivere le differenti strutture attraverso le quali gli uomini costruiscono la loro vita. Quando osserviamo la storia, vediamo che dappertutto e in tutti i tempi tra gli uomini sono presenti certe strutture: strutture abitative, strutture di lavoro,  strutture del viaggio, strutture dell’informazione… strutture che implicano un certo coinvolgimento del corpo umano, un certo numero di capacità che sono messe all’opera, delle istituzioni che incanalano queste potenze, delle specializzazioni di certi individui, che per esempio costruiscono case, danno informazioni, organizzano la circolazione degli uomini. La natura umana, se vogliamo guardarla da un punto di vista materialistico, consiste molto più in questa serie di traiettorie delle potenze del corpo e delle istituzioni, che in una definizione astratta. Studiare allora la natura umana significa sempre studiare i differenti modi nei quali la storia si sviluppa rispondendo a questi problemi, del loro emergere e del loro scomparire, del loro prevalere dell’uno sull’altro. È questa, io direi, un’antropologia materialista.

FT : Ma in questo modo non si finisce col ridurre questa possibile antropologia materialista ad una sorta di empirismo… siamo davanti a una serie di pratiche e di tendenze sempre singolari, e che si sottrae ad ogni unificazione sotto di un concetto? 
PFM: Ma no, non c’è niente di empiricistico! Se tu cerchi un concetto, è evidentemente quello di potenza, e più esattamente: il modo in cui il corpo umano entra in relazione (“è affetto”, dice Spinoza) con il mondo esterno. Da una parte, semplicemente, non si deve immaginare che queste pratiche possano essere direttamente e astrattamente dedotte dal concetto di potenza (significherebbe trasformare il procedimento in un idealismo sociologico); d’altra parte, anche se esse si realizzano singolarmente, non sono “soltanto singolari”: corrispondono ai bisogni e alle capacità fondamentali del corpo umano, capacità che nel corso della storia si combinano le une con le altre secondo forme di dominanza ogni volte differenti, e producono o deviano degli strumenti di volta in volta più perfezionati per mettersi in opera.
Faccio un esempio: la struttura dell’abitare, che è senza dubbio una delle strutture umane più fondamentali (e la meno analizzata dai filosofi, che preferiscono sempre vedere la casa o l’architettura dal punto di vista dell’architetto, e non da quello di colui che la abita); essa combina ad un tempo un bisogno di protezione, una funzione simbolica (la decorazione, l’immagine che si dà agli altri attraverso la propria casa), ed è il supporto di relazioni storico-giuridiche (si è affittuari o proprietari). Nei diversi momenti della storia queste funzioni si intrecciano diversamente, a causa delle tecniche di cui si dispone  e dei rapporti sociali nei quali esse si ineriscono. Certo, per sapere cosa ne sia in ogni epoca e in ogni formazione sociale, c’è bisogno di ricerche empiriche. Ma questo non significa una dispersione infinita.

FT:  Magari mi esprimo male, e un simile concetto non può essere “dato”, ma non si può neppure negare che in Hobbes, Spinoza, eccetera vi sia sempre l’idea di una legalità in qualche modo fissa, per non dire eterna.
PFM:   Ma certo, a condizione però di non prendere questa “eternità” per un carattere trans-storico. Eterno nel senso in cui ci sono delle leggi della natura, va bene, e nel senso in cui ci sono delle cose che sono impossibili: è impossibile che questo tavolo mangi dell’erba, se siamo al quarto piano non possiamo uscire dalla finestra volando. Beninteso, potremmo fabbricare un automa a forma di tavolo capace di assorbire l’erba, oppure degli elicotteri e degli aerei, ma per fabbricare questi oggetti artificiali bisogna rispettare le leggi della natura (la fisica che regola le nostre costruzioni meccaniche)

FT:   Oppure è impossibile un uomo che non abbia paura della morte, come in Hobbes, o che non sia riconoscente verso colui che gli ha fatto del bene, per prendere un esempio spinoziano. 
PFM:   Certo, è impossibile che qualcuno, direttamente, non abbia paura della morte, o che qualcuno, altrettanto direttamente, odi il suo benefattore. Si può però arrivare a fare in modo che qualcuno non abbia paura della morte, per esempio facendogli bere dell’acquavite, come si faceva durante la guerra del 14-18. Si può anche spingere qualcuno a sputare sul proprio benefattore, ma bisogna aggiungere qualche passione: bisogna aggiungere il gusto per il potere, la necessità di ottenere un bene superiore a quello che si sarebbe potuto ottenuto dal benefattore, una ideologia che gli consenta di compiere in buona fede questo tradimento, e via dicendo. Si può addirittura spingere qualcuno ad accusare sé stesso, ci sono dei processi nei quali l’imputato accusa sé stesso di cose che non ha fatto, perché crede, facendolo, di servire una causa superiore, o perché il giudice o l’inquisitore gli forniscono così una spiegazione dolorosa ma chiare per degli atti di cui non riusciva a rendersi conto. Basta mettere in gioco un dispositivo affettivo-istituzionale capace di produrre questo effetto. Si può ottenere tutto, a condizione di passare attraverso le leggi della natura. L’antropologia materialista, fondata sulla natura, consiste nel dire che dell’uomo si può fare tutto, a condizione di avere i mezzi per produrlo. È questa l’idea materialista di legge. Solo che non sempre ci sono tutti i mezzi necessari. L’idealismo, al contrario, consiste nel fare come se non ci fosse bisogno di mezzi, oppure come se si disponesse in ogni momento di tutti i mezzi, nel pensare cioè i risultati indipendentemente dal loro processo di produzione. Il materialismo consiste invece nel pensare la natura come processo di produzione…

FT: …   all’interno del quale si può intervenire conformemente alle sue leggi interne…
PFM:    Sì.

FT: …  sulla base di questa immanenza della pratica alla natura, quale etica, o quale politica, può essere quella teorizzata dal materialismo? 
PFM:   La stessa che trovi in Machiavelli, in Spinoza, o nei testi di Lenin analizzati da Althusser in Per Marx, nei quali mette in evidenza come Lenin pensi sempre in rapporto una situazione concreta a partire da quella che Althusser chiama “surdeterminazione”, irriducibile ad una determinazione semplice, lineare. Non mi stupisce che un idealista ritenga di disporre di una nozione di bene o di giustizia universale, fondata magari su una preliminare definizione di natura umana, e che sulla base di questa nozione egli si senta autorizzato a indicare qualcosa come assolutamente buono o cattivo, giusto o ingiusto. Mi stupirebbe, al contrario, se qualcuno tentasse di costruire una politica astratta, a priori, da un punto di vista materialistico. Per un materialista le stesse decisioni sono utili in un caso, nocive in un altro, ed è naturale che si rifiuti di costruire un’etica o una politica sistematiche, di dare lezioni a qualcuno, di dire a chicchessia: “Devi fare questo, non devi fare quest’altro!”.   In realtà, la stessa politica che è stata utile in certe circostanze concrete può essere disastrosa in altre circostanze.  Talvolta, rispondere a tono a un nemico significa fargli la guerra. Talaltra, significa negoziare.

FT : La tua risposta si concentra soprattutto sull’aspetto politico. Ammettiamo che non vi sia, in politica, un contenuto o un fine specificamente materialista : che il punto di vista materialista consista in una certa teoria dell’agire politico piuttosto che nel dire “la democrazia è buona, la guerra e la violenza sono cattive”, perché in circostanze determinate possono esserci democrazie cattive e guerre o violenze giuste (per esempio : la resistenza)… Ma non puoi dire qualcosa sull’etica?
PFM : Non sono sicuro che la distinzione tra etica e politica sia molto materialista. L’etica, non è forse nient’altro che la politica spiegata ai singoli.

(a cura di Francesco Toto)